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L’ARROSTICINO GLOBALE E IL TERRITORIO SENZA TUTELA

L' editoriale di Letizia Bindi, antropologa culturale

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Gli arrosticini sono un classico della cucina abruzzese che affonda le sue radici nella tradizione pastorizia della regione: si tratta di spiedini di carne ovina cotta alla brace nelle cosiddette canaline, con la sola aggiunta del sale. Col tempo l’arrosticino è entrato a pieno titolo nel novero dei ‘cibi globali’: cibo di strada, fast food alternativo e rustico e al tempo stesso così evocativo da caratterizzarsi nel mercato articolato e saturo della ristorazione contemporanea.

Da qualche tempo è in corso un processo di riconoscimento dell’arrosticino come IGP. Sono in larga parte gli imprenditori della lavorazione delle carni che premono per questo riconoscimento, al fine di limitare la concorrenza sempre più spesso proveniente anche dall’estero e con prezzi ovviamente sempre più competitivi. Il disciplinare che hanno elaborato nel comitato promotore, tuttavia, rischia di trasformarsi in una chiara minaccia alla produzione territoriale. Si prevede, infatti, che possano essere lavorate solo carni provenienti da animali (a peso morto) superiori a 30 kg. Le pecore abruzzesi, però, non raggiungono, per loro natura, più di 23-24 kg e proprio a causa di questo limite inferiore sono di fatto escluse da un disciplinare che in teoria dovrebbe tutelare un prodotto tipico abruzzese.La Giunta regionale dell’Abruzzo ha già espresso parere favorevole su questo disciplinare, accontentandosi di fissare nel disciplinare solo la lavorazione in loco, secondo le modalità prescritte, senza realmente occuparsi di tutelare la produzione locale e men che meno l’allevamento al pascolo favorendo di fatto l’allevamento industriale, stanziale e intensivo. 

Immaginario di Abruzzo pastorale usato per promuovere una produzione sempre meno estensiva e sempre meno radicata nel territorio, nel suo paesaggio e nelle sue pratiche artigianali. Retorica evocativa della transumanza per ammantare di narrazioni appetibili produzioni sempre meno caratterizzate condannando di fatto i pastori all’estinzione. Ci si sarebbe aspettati dalla Regione una salvaguardia del suo patrimonio paesaggistico e culturale, una tutela della sua biodiversità, in linea anche con i più recenti e prestigiosi riconoscimenti di carattere globale come quello UNESCO. Ci si trova invece davanti a una miope acquiescenza verso logiche industriali produttiviste e prive di qualsiasi rapporto con l’identità dei territori.

Un altro processo di riconoscimento IGP coinvolge da qualche tempo il pecorino d’Abruzzo in cui, ancora una volta, materia prima e territorio vengono del tutto esclusi dai criteri e fissando come parametri solo i tassi di acidità del formaggio e l’altitudine di stagionatura.

È la logica di per sé discutibile delle IGP a consentire queste storture: olio di oliva “italiano” con olive tunisine, prosciutto di San Daniele con maiali allevati in Ungheria, bresaola della Valtellina con carne brasiliana, per menzionare solo alcuni eclatanti esempi.

Le Regioni dovrebbero tutelare il territorio, le comunità e le loro attività produttive specifiche, i paesaggi agrari e produttivi grazie a un intreccio virtuoso tra disciplinari e sostegno alle attività agro-pastorali senza cedere al ricatto dell’agroindustria, non certo facilitare la produzione di arrosticini con carne non locale o pecorino con prodotti di altri territori. Non c’è solo incapacità di progettare azioni di sostegno alla pastorizia locale e tradizionale, ma una visione miope che continua a consumare territorio e lasciare la sua sempre più insostenibile impronta ecologica.  

 

 

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